lo slideshow
Laura Serani e Antonio Armentano
Giosi
Paolo Palma, Antonio Panzarella, Stefano Vecchione
Giosi e Antonio Cullice
Francesco Bevivino e gli altri ospiti nel giardino
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Massimo Cacciari: il peso dei padri
Qualsiasi eredità è
partecipabile
Qual è il rapporto con la tradizione e come ci si fa
carico di riceverla evitando di esserne schiacciati?
Subisce il
termine "erede" la stessa sorte di tanti altri preziosi
"nomi", che la chiacchiera quotidiana consuma e dissipa. Si fanno
merci anch´essi, il cui valore è relativo esclusivamente all´utilità che se ne
ricava. Siamo eredi che ignorano l´essenza più nobile della nostra eredità: il
linguaggio – e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione.
Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare, infanti, nepioi, dice il Vangelo. Eppure, proprio
l´essere-eredi rappresenta per San Paolo il nostro "titolo" più alto:
se siamo figli, siamo eredi (kleronòmoi),
eredi di Dio, co-eredi di Cristo. Ma il figlio sa rivolgersi al padre, sa
liberamente fare ritorno a lui – e allora soltanto eredita. Non si è
"naturalmente" eredi, nessuna semplice nascita garantisce l´eredità –
così come non conosciamo la nobiltà del linguaggio solo perché abbiamo ascoltato
parlare la mamma. Erede sarà colui che riconosce in sé, come costitutivo del
proprio sé, la relazione col padre, e cerca di esprimerla in tutta la sua
tremenda difficoltà. Se è così, allora proprio l´erede sarà chi,
"all´inizio", avverte la propria mancanza, la propria solitudine. Si
fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. Heres latino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare,
dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos (stessa radice del tedesco Erbe). Per essere eredi occorre saper
attraversare tutto il lutto per la propria radicale mancanza. Così, per San
Paolo, non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo – il che significa:
attraverso la imitazione della sua Croce.
Nulla forse
ci è più estraneo di questa idea di eredità. Per quanto essa possa essere
balenata nell´Umanesimo più filosoficamente e teologicamente audace, i grandi
figli della modernità non si riconoscono più come veri eredi. L´eroico
idealismo della nuova scienza e della nuova filosofia è dominato da homines novi, dall´idea di "uomo
nuovo", che si infutura da sé, in base a ciò che egli stesso ha scelto di
essere. L´"uomo nuovo" è un orfano felice. L´eredità non ha per lui
alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui
liberarsi in ogni modo. Figli siamo costretti a nascere, ma il figlio sarà
davvero tale, cioè liber, quando
saprà rifiutare d´essere erede. (…) Possiamo allora, sì, dirci eredi – ma eredi
che "superano" in sé il padre. Quest´ultimo è divenuto, per così
dire, il combustibile della nostra storia. Non l´erede fa ritorno a lui, ma è
lui a consumarsi come alimento della vita nuova dell´erede. L´erede è
"pieno" del padre, orbo di nulla, ma, anzi, occhio onniveggente.
Allora anche la domanda sulle "radici" assume questo
"prepotente" aspetto: quale paternità abbiamo meglio assimilato,
quale ci risulta più utile per "progredire", quale ha più
efficacemente funzionato da combustibile? (…) Qui consiste il paradosso
dell´autentico erede: erede nomina una dinamica, dal riconoscimento di un
proprio, essenziale, mancare, attraverso la ricerca di una relazione che possa
presentarsi altrettanto determinante per il proprio carattere, fino al
riconoscersi in essa. Eredità non significa "caricarsi" di contenuti
dati, presupposti, ma ricercare il proprio stesso nome nell´interrogazione del
passato. Eredità non significa assumere dei "beni" da ciò che è
morto, ma entrare in una relazione essenziale, non occasionale, non
contingente, con chi ci appare portante passato. Ma una tale relazione potrà
essere voluta soltanto da chi si sente, da solo, in quanto semplice
"io", deserto, mancante, impotente a dire e a vedere.
La chiacchiera dominante concepisce la ricerca di eredità esattamente
all´opposto. Come ricerca di fondamento e di assicurazione. Mille volte meglio,
allora, il gesto prepotente di quei "padri" che pretendevano di
potersi "decidere" da ogni passato. Poter essere eredi comporta,
invece, provare angoscia per una condizione di sradicatezza o di abbandono,
porsi, su un tale "fondamento", all´ascolto interrogante del
"così fu", cogliere di esso quelle voci, quei simboli che ci siano
riconoscibili come relazioni essenziali, costitutive della trama del nostro
stesso esserci. Dinamica arrischiata quanto altre mai, poiché il passato può
sempre inghiottire chi se ne cerca erede, e in particolare proprio colui che
presume di potersene appropriare. Erede è nome di una relazione massimamente
pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici,
quasi a voler fare del figlio l´automatico erede, e idee sradicanti, se non
deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non
destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l´altro
da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità
che non impegnino, che non obblighino, che ci rassicurino ancor più nella
nostra pretesa "autonomia" – quando qualsiasi eredità è
"partecipabile" per definizione. Ma ciò che è dimenticato non per questo
è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di "erede"
in tutta la pregnanza che nella nostra lingua, ancora, nonostante tutto, si
custodisce.
Massimo Cacciari, 4 maggio 2011
Massimo grazie!
RispondiEliminaimparerò a usare lo spazio dopo la virgola, in questo cammino avviato sabato 25 luglio all'Aria Rossa!